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Max Serradifalco, Earth Flags. Transcending Boundaries

di Cesare Biasini Selvaggi
(Tratto dal catalogo Earth Flags. Transcending Boundaries)

Premesse
C’è un libro di Roberto Alajmo, scrittore e giornalista, dato alle stampe qualche anno fa dal titolo “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”. “Annacare/annacarsi” è, in dialetto siciliano, un verbo insidioso, difficilmente traducibile in italiano. Quel che più si avvicina al suo significato è “cullare/cullarsi”, ma non è proprio la stessa cosa. L’arte di annacarsi prevede il muoversi il massimo per spostarsi il minimo. «Pur restando immobile, l’Isola si muove. Non è uno di quei posti dove si va a cercare la conferma delle proprie conoscenze. È, invece, un teatro dove le cose succedono da un momento all’altro. È un susseguirsi di scatti prolungati, pause per rifiatare e ancora fughe in avanti», scrive Alajmo. L’arte di annacarsi, dunque. Un titolo che racchiude la multiculturalità e gli immobili mutamenti di una terra antica, dove però è possibile trovare oggi la chiave dell’identità europea stessa, a patto di utilizzare anche un po’ di immaginazione. D’altronde, come diceva Leonardo Sciascia, «L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione?». Questo spiega perché Palermo sia stata una città ideale, in particolare in questo momento storico, per l’edizione del 2018 di Manifesta intitolata “Il Giardino Planetario. Coltivare la coesistenza”. Se, infatti, nel XVIII e XIX secolo il vecchio continente ha popolato il mondo, oggi il mondo sta popolando il vecchio continente, con un’ondata migratoria drammatica, di cui la Sicilia e il suo capoluogo sono la frontiera d’Europa. L’avamposto naturale di prima accoglienza. In questo contesto si colloca il “laboratorio Palermo”, accompagnato dal rigurgito di gruppi e movimenti nazionalisti e xenofobi un po’ dovunque negli stati dell’Unione, che richiamano alla mente pagine inquietanti fino a poco tempo fa ritenute di competenza esclusiva della storia. Palermo è, infatti, una città dove non esistono migranti. «Perché chi arriva a Palermo, – ricorda il suo primo cittadino, Leoluca Orlando – diventa palermitano». Se la multiculturalità di Palermo è sempre stata simboleggiata dalla epigrafe quadrilingue (latino, bizantino, arabo, ebraico) del 1149 conservata alla Zisa (di cui un moderno risvolto può essere ritrovato nelle recenti targhe in italiano, ebraico, arabo che indicano i nomi delle vie in quello che fu il quartiere ebraico), da oggi, per scelta del team curatoriale di Manifesta 12, ha la sua “icona” nel dipinto di Francesco Lojacono del 1875, “Veduta di Palermo” (nella collezione della Galleria comunale d’Arte Moderna). Perché in questa rappresentazione pittorica della città, nulla risulta indigeno, ma l’esito fortunato dell’integrazione di specie straniere. Gli alberi d’ulivo provengono dall’Asia, così come il pioppo tremulo arriva dal Medio Oriente, l’eucalipto dall’Australia, il fico d’India dal Messico, il nespolo dal Giappone. Ispirandosi a questa idea urbana di “giardino planetario”, Max Serradifalco (Palermo, 1978), giovane genius loci, ha avviato la sua personale esplorazione sulla capacità di aggregare le differenze e generare vita da tutti i movimenti e flussi migratori, culturali, economici o da asilo politico che siano. Il risultato sono le sue “Earth Flags”, bandiere (67×100 cm) ottenute da collage di fotografie satellitari, della serie “All Colors of the World”, iniziata nel 2016. «Ogni bandiera – dichiara Serradifalco – è composta da sezioni di mappe satellitari di paesaggi appartenenti ad altre nazioni. Immaginando un mondo dove gli uomini siano considerati abitanti della terra, prima di essere cittadini di una nazione».

Un visionario “RisiKo” geopolitico
È il 2011 quando Serradifalco, attratto dalle geografie lontane e affascinato dalla possibilità di compiere scorribande tra i linguaggi, dalla fotografia a una specie di pittura digitale, elabora “Web Landscape Photography”. Un progetto artistico che gli consente di viaggiare virtualmente per tutto il pianeta, alla ricerca di un nuovo modo di osservare e reinterpretare i paesaggi della Terra. È stato così tra i primi artisti a realizzare, tramite il web, reportage fotografici con l’utilizzo esclusivo di mappe satellitari. Serradifalco sa bene come i rapporti tra arte e geografia abbiano una lunga tradizione, che va dal concorso nella creazione delle mappe alla storia della pittura di paesaggio. Negli ultimi decenni questi legami sono andati modificandosi, per individuare nuovi e ulteriori parametri, alla luce di una ridefinizione del mondo in un’epoca che va oltre la modernità. Lo ha evidenziato magistralmente Francesco Tedeschi nel suo saggio “Il mondo ridisegnato. Arte e geografia nella contemporaneità” (Vita e Pensiero, 2011), sottolineando che la geografia nella ricerca artistica contemporanea è un modello di conoscenza e di appropriazione del mondo, base per l’invenzione di luoghi ideali, terreno in cui coltivare sensibilità per temi quali la difesa dell’ambiente, la gestione della globalizzazione, i flussi migratori, la cooperazione e la pace tra i popoli, la gestione dei conflitti.
In questo alveo di ricerca si collocano le “Earth Flags”, cioè le personalissime mappe-bandiere di Serradifalco, non a caso da me sottotitolate “Transcending Boundaries”, perché rivisitate all’interno del perimetro di un visionario “RisiKo” geopolitico, che travalica i confini codificati dall’uomo. In cui paesi separati da modelli economici e di sviluppo, confessioni religiose, dalla storia come dalla geografia politica convergono, si intersecano, l’uno a completare l’altro. E nel simbolo più emotivamente sensibile per ciascuno, vale a dire la bandiera nazionale. A lungo si è ritenuto che la volontà di Dio, o della natura, potesse aver effettivamente disegnato delle regioni “naturali” per destinarle a una civiltà, a un popolo, a un paese. Ma il “confine naturale” non esiste. Lo spiegarono chiaramente lo storico Gaetano Salvemini e il geografo Carlo Maranelli nel 1918: «non esistono confini politici naturali, perché tutti i confini politici sono artificiali, cioè creati dalla coscienza e dalla volontà dell’uomo». L’artista palermitano contribuisce pertanto, a chiarire l’equivoco attraverso il quale le teorie geografiche furono utilizzate per esprimere punti di vista di parte, pervasi dalla tendenza culturale predominante, dal cosiddetto “spirito del tempo”. E Serradifalco lo fa innanzitutto da affabulatore: da meraviglioso costruttore di sofisticate favole evocative, nelle quali si accarezzano, a ogni piè sospinto, “Earth Flag” dopo “Earth Flag”, realtà e trasfigurazione.
Come le mappe, i percorsi e i mappamondi di Piero Manzoni, Claudio Parmiggiani, Alfredo Jaar, Hamish Fulton e, in particolare, del suo padre putativo Alighiero Boetti, questa recente produzione dell’artista palermitano rappresenta un planisfero politico, in cui territori diversi assemblano i colori e i simboli della bandiera di altri: a ricordare che nel mondo popolazioni ed etnie diverse sono fondamentali per l’equilibrio di quell’ecosistema che risponde al nome di genere umano. Le bandiere ottenute dal patchwork satellitare di Serradifalco resistono, tuttavia, alla tradizionale obsolescenza dei simboli che, invece, ha cristallizzato anni prima un altro suo inspiratore implicito, Jasper Johns. L’attuale bandiera statunitense non ha più, infatti, le 48 stelle eseguite dal celebre artista americano, bensì 50, dopo l’annessione dell’Alaska e delle Hawaii, e non più disposte ortogonalmente, ma alternate. Quella a stelle e strisce intessuta da lacerti di fotografie satellitari dal nostro artista siculo prefigura, invece, un presente in movimento, sdrucciolevole e liquido che rischia di diluirsi anche nel prossimo futuro, celando nel blu di fondo, sul quale si stagliano le tipiche stelle, il mar Mediterraneo compreso tra la Libia e l’Italia, la rotta battuta oggi da un’ondata migratoria sempre più critica. Una scelta questa di Serradifalco per interrogarci, ancora una volta, in maniera tutt’altro che implicita: è proprio vero che la geografia serve a fare solo la guerra, compresa quella economica? E se ci fosse un’altra geografia possibile per riflettere e agire sul mondo quando proviamo a osservarlo per esempio, come in questo caso, dal satellite adottando il medesimo punto di vista di Dio?
Insomma la carta geografica è un indicatore forte del potere politico e si presenta, pertanto, fisiologicamente fredda, astratta. E l’artista siciliano (come altri artisti contemporanei, a partire dalla palestinese Mona Hatoum) intende scardinarla proprio per questo a nuove emozioni. Ecco spiegate, forse, quelle sottili sfumature personali di perdita, il disorientamento e il senso d’esilio esistenziale che producono le “Earth Flags”, intrise come sono – attraverso un’estetica sapiente – di nostalgia inquietante di un futuro migliore possibile, ma poco probabile, in una società ormai assuefatta a chiudere gli occhi difronte a scomode verità.